lunedì 20 dicembre 2010

Identità multiculturale: una sfida educativa

Nicola Lupoli (2)

1. I profili della contemporaneità
Il mondo contemporaneo si mostra avvolto da permanenti processi di interazioni socioecono-miche e di scambio culturale. Radicali mutamenti ne scompongono e ricompongono gli scenari riconfigurando il rapporto tra economia e politica, Stati e cittadini, etnie e culture, e continuamente riscrivendo i paradigmi interpretativi dei concetti di sviluppo e sottosviluppo, povertà e ricchezza, scienza e natura. I mondi dell’uomo (i suoi diversi, possibili mondi) sono omologati sempre più in “un” mondo che, da un lato si presenta unificato dalle tecnologie e dal Mercato unico (e dalle sue strutturali, ineliminabili contraddizioni), dall’altro come un cangiante mosaico in cui si compongono e ricompongono innumerevoli tessere, via via cambiate dalle relazioni. Un mondo fluido, nella cui complessità si intrecciano e interagiscono persone, culture e popoli fino a costituire un eterogeneo insieme intessuto dalle globalizzazioni, mai nella storia così rapido nelle trasformazioni e così multicentrico. Un diffuso stato di sospensione tra diversi modelli politici e sociali, tra religioni e culture avvolge società e persone in una permanente incertezza.
Un fenomeno favorito da sempre più ampi flussi migratori che rappresentano uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti le attuali società, non solo occidentali. Centinaia di milioni di perso-ne, in fuga dalla morte per fame e per sete, da guerre, rivoluzioni e persecuzioni, ma anche mosse da motivi di studio, di miglioramento del proprio tenore di vita, da attrazione culturale e da ricon-giungimenti familiari -quasi sempre trasportate dalle mafie internazionali- si spostano annualmente verso i Nord del mondo. Una parte cospicua, difficilmente quantificabile -sovente soppressa dagli stessi mercanti d’uomini ai quali s’è affidata- termina il suo percorso mummificata sulle sabbie dei deserti dell’Africa sub sahariana, annegata tra le onde del Mediterraneo, asfissiata o congelata tra i doppi fondi dei Tir sulle strade dei Balcani. Nel deserto dell’Arizona, che separa il Messico dagli Stati Uniti, muore di caldo e insolazione più di un migrante messicano al giorno. Chi sopravvive deve affrontare le politiche di “accoglienza” dei vari Stati, sempre più restrittive, e il “rigetto” di tanta parte degli autoctoni. Molti sono trasformati in “invisibili” clandestini, spesso prede delle organizzazioni criminali locali.
Le migrazioni hanno notevolmente espanso le potenzialità di contatto tra centinaia di diverse etnie e culture, fatto la storia dell’uomo: dalle migrazioni dei popoli dell’Asia centrale verso il baci-no mediterraneo e verso l’India, nel periodo che la storia degli europei denomina “Antichità”, alle invasioni “barbariche” medioevali, alle colonizzazioni delle Americhe. Culture e popoli si sono, dunque, incontrati (e scontrati) in ogni epoca con esiti contrastanti, producendo la distruzione vio-lenta di numerose culture giunte a elevati livelli di complessità (basti pensare a quelle precolom-biane o ai millenari regni dell’Africa Occidentale) e la scomparsa di migliaia di culture “deboli” (soprattutto orali) sparite nel confronto con culture più strutturate. Ma anche, come nei luminosi esempi del cosmopolitismo greco e romano, permettendo processi di integrazione arricchente con il passaggio di conoscenze da un popolo all’altro, favorendo la circolazione e l’accumulazione delle conoscenze e lo sviluppo generale del patrimonio culturale dell’umanità.
La pluralità culturale di un territorio non è, dunque, un fenomeno nuovo. L'Europa è un conti-nente di meticci I suoi Stati conservano nel loro tessuto tracce di molteplici etnie e culturali, di contaminazioni e meticciamenti dovuti alle migrazioni intercontinentali, a confini ripetutamente spostati da guerre e accordi diplomatici, dagli effetti di mobilità interna agli Stati multinazionali, colonialisti e imperialisti.
Dopo secoli di intolleranze, espresse con persecuzioni religiose e politiche, massacri e guerre (seguite da puntuali carestie ed epidemie), gran parte dell’Europa ha faticosamente elaborato e sostanzialmente condiviso principi di pluralismo e di tolleranza. Pur tra laceranti contraddizioni, ancora persistenti, sono maturate -a partire dal secondo dopoguerra- l’aspirazione ad una unità del Continente attorno a comuni radici culturali e una diffusa coscienza etica, che hanno sostanzialmente permesso di convivere con la diversità senza compromettere la coesione sociale e i diritti delle persone.
Più complessa è oggi la situazione determinata dalle migrazioni. L’incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione dell’Europa occidentale è sempre più elevata. Questa nuova realtà è percepita negativamente per una diffusa riduzione del fenomeno migratorio nelle macrocategorie della extracomunitarietà e della clandestinità, di per sé evocanti l’estraneità (alla civile Europa) e la devianza. Due categorie molto utilizzate anche dalla politica, come denunciano ripetutamente organismi internazionali, associazioni umanitarie, Chiese. Una stereotipizzazione criminalizzante ed escludente degli immigrati (e di alcuni gruppi etnici in particolare) compiuta attraverso il linguaggio.
La crescente intolleranza di gran parte delle società e delle istituzioni europee verso l’immigrazione testimonia la scomparsa di diversi luoghi comuni sull’humanitas occidentale. Il rifiuto dello “straniero” è rivestito di elementi sia materiali sia simbolici: in lui si riflettono le om-bre, i “lati oscuri” degli individui (pulsioni respinte, identificazione, introiezione, proiezione) e delle società d’arrivo che l’inconscio collettivo ha mascherato o rimosso. L’immigrazione (3) diventa “specchio” rilevante di dimensioni inconfessabili della società d’arrivo. L’immigrato genera atteggiamenti ambivalenti. Negli autoctoni si rileva uno stato di sospensione tra respingimento e accoglienza che. da un lato, riconosce la necessità economica delle sue braccia, e dall’altro rifiuta la sua testa (4). L’origine dei sentimenti di ostilità infraculturali risiede nei nuovi contesti di vita, densi di coesistenti diversità, di conflitti fra diversi (talora indecifrabili) sistemi di riferimento e orizzonti personali, che costringono a ri-elaborare criteri, norme, profili di identità collettive che non trovano più rassicuranti ancoraggi nelle “memorie” storiche e che obbligano a negoziare le relazioni sociali, a confrontarsi con riti, canoni, religioni, a ri-significare simboli, valori, stili cognitivi e categorie per orientarsi in realtà mutate dalla compresenza di più culture.
L’incontro con tante alterità origina problemi che investono l’economia, la società civile e le i-stituzioni pubbliche, e paure, timori, sfide che toccano la vita quotidiana dei singoli individui, au-toctoni e migranti. In particolare gli immigrati vivono una sensazione di sradicamento brutale dai contesti socio-culturali loro noti, un dolore (che giunge a frequenti e vari disturbi psichiatrici) generato dalla lontananza dai propri luoghi e parametri di riferimento esistenziale. Dalla seconda metà del ‘900, la letteratura socioculturale e psichiatrica classifica questo disagio con le espressioni shock culturale o stress acculturativo (difficoltà a gestire l’insieme dei mutamenti che avvengono nella sfera identitaria ed emotiva di una persona in relazione con una cultura altra, soprattutto in contesti culturalmente chiusi neganti il riconoscimento della sua diversità) e goal striving stress (disturbo psicopatologico determinato dalla percezione di una personale impotente fragilità, figlia dell’impossibilità di realizzare i propri progetti di vita in sistemi socioeconomici discriminatori dove, di fatto, è negato il pari accesso ai diritti di cittadinanza). Allo stesso tempo, la frammentazione culturale connessa ai fenomeni migratori planetari fa insorgere sentimenti di perdita e di disagio, incertezza esistenziale. Ma l’“altro” costringe anche a cercare quei fondamenti che possono rinsaldare i legami autentici tra gli esseri umani, a trovare l’unità nella diversità, a meglio realizzare il senso profondo della democrazia che, in una realtà culturale ovunque non omogenea, deve affermare valori di uguaglianza e di rispetto reciproco con la permanente ricerca di un equilibrio che garantisca pari diritti e pari opportunità.

2. Oltre le culture: cercare la persona
In ambito educativo e, in generale nelle scienze umane, un autentico incontro con l’altro pre-suppone il sottrarsi dagli schemi dei propri abiti culturali e muoversi alla ricerca della persona. Dobbiamo, allora, interrogarci sulle modalità della relazione con l’altro che si manifesta negli stu-diosi che si occupano nei vari campi disciplinari delle diversità culturali, cercando nuove risposte ai limiti derivanti da categorie interpretative inefficaci per la comprensione dell’immigrato, dei suoi disagi e delle sue sofferenze, così come dei suoi sogni e bisogni. La presenza degli immigrati diviene, in tal senso, “cartina di tornasole” anche delle contraddizioni e dei limiti delle epistemologie occidentali a confronto con l’incomprensibilità dell’altro, con la compresenza di multiformi profili sociali e individuali rinchiusi nelle loro apparenti autonomie, di nuove dinamiche identitarie e nuove forme della soggettività. Ben più rilevante della traumaticità dell’incontro con l’altro a noi sconosciuto, è la difficoltà della sua riconducibilità ai nostri schemi interpretativi, che ci costringe ad arricchire i nostri stili cognitivi e i nostri dispositivi lessicali, a ridisegnare l’usuale categoria dell’alterità per convivere con un diversità che si mostra con nuove forme (5).
Questa nuova complessità invita a rendere plurali gli sguardi con i quali si osserva la realtà, a ripensare quelle modalità di conoscenza del mondo e della sua rappresentazione che tracciano le piste della nostra relazione con esso influenzando ogni nostra conoscenza e comportamento. A ri-flettere sulla natura dell’identità culturale che fornisce al soggetto una dimensione simbolica ed espressiva di riferimento, acquisita con una dinamica per lo più inconscia e inconsapevole. A riflet-tere sull’occhio che vede, tanto quanto sull’oggetto veduto(6). Problema che, più in generale, ri-guarda anche l’influenza delle metodologie e degli strumenti utilizzati sull’oggetto esaminato (che spesso distorcono o “creano” i dati), e la relatività delle riflessioni su molti paradigmi complessi -come quelli inerenti i concetti di cultura, di identità culturale, di etnia e di tradizione, e suoi pro-cessi- che sono sempre “orientate” dalla cultura dello studioso.
Dall’originario percorso di de-animalizzazione dell’uomo attraverso il sapere, alla manifestazione di quel sapere nelle civiltà da esso prodotte, la cultura è storicamente intesa nella scienza occidentale come un insieme di conoscenze, valori, norme, comportamenti e prodotti culturali. La cultura è modellizzata in chiave universalistica e osservata attraverso uno schema storico-evolutivo che la riconduce a un’unica matrice universale. Gli elementi di differenza e di similitudine delle culture del passato, nonché quelli che attraversano le diverse culture contemporanee sono oggetto di una comparazione qualitativa effettuata con parametri valutativi comuni che ne producono la gerarchizzazione sulla base di una presunta continuità tra l’occidente e gli “altri”.
La cultura, dunque, come oggetto statico, perimetrato geograficamente ed etnicamente, os-servato e catalogato attraverso discutibili categorie concettuali che hanno, tra l’altro, accorpato migliaia di culture diverse nella definizione di “culture primitive” in quanto “illetterate”. In tal mo-do, lo studio delle culture è stato ridotto ad un monologo tra l’osservatore “letterato” occidentale e i sistemi socio culturali per elaborarne una descrizione “oggettiva”. Una concezione etnocentrica ed eurocentrica, che non ne restituisce la multiforme complessità, soprattutto in un mondo, come quello contemporaneo, in cui i suoi fenomeni si sviluppano all’interno di dinamiche economiche e simboliche che, se da un lato sono omogeneizzanti, dall’altro sono caratterizzate da varietà, diver-genze, contrapposizioni, da contraddizioni non più riconducibili alle categorie della dialettica e, di conseguenza, non riducibili a sintesi unitarie.
Oggi, liberati dall’idea della storia come sviluppo monodirezionale che persegue una sua lineare complessificazione, e riconosciuta la legittimità di molteplici modelli culturali, possiamo guardare alla cultura come a un insieme complesso, relativo, dinamico, immerso in un permanente cambiamento determinato da sollecitazioni interne e da movimenti storici. E questo insieme complesso richiede una radicale decostruzione di gran parte dei modelli e dei concetti costituenti le radici epistemologiche delle scienze umane.
La cultura produce oggetti, definisce i significati, i simboli di una determinata realtà sociale e relazionale che assumono forma all`interno di un processo circolare di rapporto tra il singolo, il gruppo e la società di riferimento (e della loro reciproca influenza), che relaziona aspetti profondi dell’individuo col mondo esterno. Le sue manifestazioni si incarnano nelle stesse relazioni sociali fino a diventarne dinamica e permeabile struttura di sostegno, la quale, sempre pregna di interne contraddizioni, più che una totalità condivisa, rappresenta per l’individuo un orizzonte di possibili, plurali, descrizioni narrative.
L’incontro autentico con le diversità migranti presuppone, in primo luogo (in particolare nei processi formativi), la de-localizzazione e de-etnicizzazione del concetto di cultura, poiché i processi migratori disancorano le persone, gli oggetti e i simboli dai loro luoghi e dalle loro fonti originarie innescandone la rielaborazione e, conducendo uomini e donne a percorrere innumerevoli altri luoghi, rendono loro possibile l’assunzione di elementi delle molteplici culture con le quali vengono a contatto. Le culture da guardare come dimensioni afferenti a differenze incarnate e situate (7), non feticci identitari che imprigionano individui e gruppi in appartenenze indissolubili e senza tempo, bensì campi di differenze nei quali si esprime l’insopprimibile pluralità della natura umana, il modo singolare in cui ogni individuo rende propri i materiali culturali di cui dispone.

3. Oltre i feticci identari: incontrare la persona
L’identità, sia essa intesa nel suo significato individuale, etnico, culturale o di genere, è il pro-dotto di un processo di identificazione e differenziazione nei confronti dell’alterità, caratterizzato non tanto da elementi di continuità e conservazione (attribuibili a determinazioni genetiche o a-scrittive), quanto da un insieme di attribuzioni continuamente rinegoziate alle interno di relazioni specifiche. È un processo in continuo movimento ed evoluzione, dovuto dall’interdipendenza tra aspetti esterni (attivati dagli altri) e da aspetti interni (attivati dall’individuo stesso): è lo spazio tra l’autonomo progetto della persona e il riconoscimento di tale progetto da parte degli altri (8). È sempre realtà complessa e mutante, molteplice e aperta, che si costruisce per stadi successivi, come elaborazione storica che reagisce di fronte ad avvenimenti, situazioni, contesti: costante tentativo di stabilire degli elementi di continuità in un flusso di cambiamento, in un movimento di continuo adattamento e riposizionamento.
Spetta alla formazione il compito di co-costruire una cultura nuova e identità plurali, unico an-tidoto efficace alle sfide poste dalle pluriculturali società contemporanee. È la Pedagogia, nei cui paradigmi si intersecano rigore conoscitivo e tensione etica, dimensione ermeneutica e riflessività, dotata di un patrimonio scientifico elaborato nei secoli e, allo stesso tempo, in grado di intercettare le emergenze formative del presente per la sua strutturale natura di scienza “contestuale”, che può oggi potentemente contribuire alla costruzione di percorsi generativi di nuove conoscenze, nuovi valori e nuovi sistemi di riferimento(9). Ad essa si può attingere per elaborare nuovi modelli e contesti formativi che siano per tutti luoghi di ri-conoscimento e condivisione dei diritti fondamentali(10) , centrati su quell’universale umano che qualifica in modo assoluto e inalienabile la specie, e valorizzanti quelle differenze che rendono manifesta la sua libertà.
In essa possiamo ritrovare modelli educativi attenti agli innumerevoli nessi e relazioni che ac-compagnano i flussi migratori, tesi a cogliere e valorizzare quelle antropologie situate dalle quali scaturisce un movimento continuo verso una ridefinizione mai chiusa dei diritti dell’uomo nel loro farsi sostanziale diritto di cittadinanza. Modelli in grado di com-prendere -nei contesti educativi formali e non formali- la natura delle nuove dinamiche relazionali, i cambiamenti delle dimensioni psicologiche e culturali delle persone etnicamente diverse in contatto, di generare un permanente, dialettico tras-formarsi nell’incontro con diverse narrazioni fuori e dentro di sé, e di costruire “comunità di ricerca” in ambito scolastico e sociale in grado di favorire un pensare libero, di condurre a riflettere sulla propria struttura cognitiva, sui propri valori, sui propri comportamenti.
L’attenzione educativa va, dunque, spostata dai contenuti che l’identità veicola (valori, tratti culturali, tradizioni) ai confini che separano e allo stesso tempo uniscono le diverse identità, sul meccanismo della sua costruzione, più che sul risultato di tale processo, e sul ruolo centrale che in esso svolgono le relazioni sociali e quelle individuali. Pensare l’identità come il risultato di una co-struzione sottolinea il ruolo attivo del soggetto nel definire il senso del proprio sé nel tempo, di-stinto da ogni altro, ma in relazione, in accordo o in contrasto con gli altri, attraverso l’interiore elaborazione di aspetti esterni (tradizioni e radici storiche) e di soggettive percezioni di ciò che egli è, e di ciò che intende e si propone di essere).
L’azione educativa è resa possibile proprio da questa flessibilità ed elasticità delle identità per-sonali e culturali, dal loro costituire modelli, di valori, di credenze, di sistemi comunicativi, di sim-boli, di artefatti in continuo movimento, in permanente scambio. Nutrite di sollecitazioni sempre mutevoli, di relazioni, dialoghi, rapporti e interazioni con gli altre persone, innervate nelle dinami-che di confronto con altre culture, le identità rappresentano la forma con la quale ci si presenta ad un ambiente. Una forma sottoposta al rischio di “catastrofe impellente” negli immigrati, se immersi in realtà ostili che acuiscono i sentimenti di estraneità, rendendo l’evento migratorio un drammatico evento specifico che lascia un tragico, disorientante sentimento di vuoto.
Nei tempi del meticciamento planetario è necessario un paradigma formativo incentrato sulle differenze, che accompagni le identità a decostruirsi e a ripensarsi in una luce nuova, al di fuori dei miti delle gabbie e gerarchie culturali e/o etniche. Una formazione che promuova lo scambio, la mescolanza, determinando ampliamenti di valori, trasformazioni di mentalità. Il passaggio dal paradigma culturale dell’identità al paradigma della differenza è una necessaria rivoluzione antropologica che fa da lievito a nuovi “io”, a identità aperte, "meticce" (11), non più riconducibili all’ambiguo feticismo delle radici e delle appartenenze, identità di migrazione, dove l’appartenenza è di natura trasversale.
L’educazione, in qualunque ambito esperita (formale, non formale, informale) e a qualunque età generazionale o etnia rivolta, deve riconoscere e valorizzare la pluralità quale fatto antropolo-gico ed etico che attraversa tutte le forme di espressione umana e che riguarda il singolo come individuo e il suo apparire e mostrarsi nell’esperienza umana e la collettività nel suo costituirsi in gruppi culturalmente orientati (12).
La formazione alla pluralità va realizzata all’interno di legami e interazioni didattici in cui l’apporto creativo e il rivelarsi della singolarità specifica di ognuno sia costantemente correlato alla presenza degli altri, affinché la persona possa esprimere se stessa nella comunicazione e nell’azione, nel vivere insieme, nella relazione abituandosi, nel contatto, a risignificare in diversi quadri concettuali le azioni e le parole degli altri.
L’interculturalità si fa evento nel sistema cognitivo del soggetto e nella sua esperienza cogniti-va, allorquando in esso si realizza un vissuto sintetico-reinterpretativo di più culture (13). In tale processo l’identità, come intangibile unicità del singolo, assume forma nella relazione tra diversi, e l`educazione deve contribuire a dare forma al diritto d’essere diversi quale base ontologica e condizione del nostro essere uguali. La diversità e varietà umana si caratterizza, allora, come condizione dell’uomo non solo in termini di identità e cultura ma, per il solo di esistere, solleva l’irrisolta questione dell’uguaglianza. Assume una valenza normativa che estende il diritto della libertà di pensare, di esprimere il proprio pensiero, di compiere azioni da esso derivanti, al diritto alle pari opportunità di salute, di formazione, di lavoro, a prescindere dall’etnia, sesso, orientamenti religiosi, politici, culturali.
In tale direzione, l’azione educativa deve innanzitutto sottrarsi alla veicolazione di una conce-zione della cultura delimitata nel tempo e nello spazio e assegnata a specifici gruppi, cospargendo le varie aree del mondo di etnie, società, culture distinte e specifiche, rappresentando così in modo statico fenomeni attraversati da permanenti dinamismi e interconnessioni. Essa deve mirare a far acquisire consapevolezza del fatto che le culture contemporanee, pur a vari livelli invase dalla occidentalizzazione (universale per la sua espansione e la sua storia e riproducibile per la sua natura tecnologico-strumentale), sono intrecciate tra di loro e sottoposte a reciproche influenze, anche pericolose laddove, per fronteggiare la minaccia dell’omogeneizzazione e ribellarsi alle crescenti disuguaglianze, individui e popoli tendono a chiudersi in sé stessi o nei fondamentalismi.
Spetta oggi a un nuovo umanesimo riaffermare la dignità della persona e l’inviolabilità di diritti fondamentali che sono un non negoziabile né riducibile patrimonio della specie umana. I processi formativi possono (devono) accompagnare la riflessione di altri correlati campi del sapere (diritto, filosofia morale, etica …) impegnata ad intercettare e esplicitare l’immensa varietà di contenuti e significati che nei diversi paesi e culture è racchiusa nell’espressione “diritti umani”, a svelarne le dinamiche storiche, per co-costruire una mente aperta al riconoscimento delle specificità culturali e dell`uguaglianza delle opportunità per ogni individuo, gruppo, popolo.
In ambito educativo bisogna partire dalla tolleranza, fondamento di qualsiasi progetto mirante a generare il senso del rispetto dell’altro e di favorire l’integrazione socioculturale. Se la diversità culturale è una caratteristica specie-specifica dell’uomo, occorre proteggerla e promuoverla, sul piano dell’acquisizione di saperi che conducano ad uno scientifico riconoscimento della pari dignità e del rispetto di tutte le culture. Occorre dunque, in primo luogo, liberare le società occidentali, e gran parte dei loro sistemi educativi, da tracce ancora depositate di una idea e di una pratica monoculturale dell’educazione, che trasforma l’uguaglianza in radicale neutralizzazione delle diversità, in una inaccettabile logica di `reductio ad unicum` della pluralità. Una scoria cognitiva che, ritenendo le differenze etniche e culturali causa di pericoloso sgretolamento della società, produce devastanti effetti sociali, culturali e psicologici, avvalendosi del sostegno di politiche basate sull’intolleranza, sull’espulsione, sull’esclusione o, nel miglior caso, su un’assimilazione imposta. Ma occorre anche contrastare altri modelli presenti, derivati da varianti assimilazioniste e multiculturali, drammaticamente falliti in tutta Europa, ma tuttora prevalenti.
L’assimilazione, retta dalla logica del do ut des dei latini, dallo scambio dell’identità con la cit-tadinanza, coglie l’aspirazione di ogni persona umana e di ogni identità culturale di preservare e valorizzare la propria specificità ma, pur se ne ammette l’esistenza, ne confina l’espressione in ambito privato: accoglie la persona se è disponibile ad una rinuncia sociale del proprio sé cultura-le(14). La prospettiva multiculturale ha delineato un mondo simile ad una tavolozza di colori primari e società rivestite dalla presenza di più culture, “proprietà” degli individui e dei gruppi (15), rinchiusi in categorie esclusive e inalterabili, coesistenti ma non conviventi, realizzando -come in Inghilterra- realtà composite, ma non complesse, non innervate da interrelazioni culturalmente significative tra le diverse sensibilità.
È necessario, allora, andare oltre il paradigma della mera tolleranza, che rischia di veicolare l’idea della tutela delle culture come oggetti da preservare dall’estinzione, e osare spingersi verso un’idea di società e di modelli formativi che facciano del pluralismo interculturale la loro qualità più elevata. Il riconoscimento dell’incommensurabilità fondamentale ed essenziale di tutte le di-verse forme di cultura, di religione e di modi di vivere, e la consapevolezza che nessun uomo e nessuna cultura ha accesso alla totalità dell’esperienza umana (16), implicano la necessità di superare l’estetico compiacimento del mosaico culturale composto da mille tasselli variopinti e di promuoverne l’interazione.
La prospettiva che si delinea è quella di un’educazione interculturale, che induca a scoprire e mettere in rapporto le differenze etniche, senza limitarsi ad esaltarle e fissarle, mettendole in dia-logo e favorendo la comprensione reciproca. In tal senso, il suo fine è quello di facilitare il confronto tra persone di culture diverse e la coesione sociale, trasformando il contatto tra “identità distinte” in processi acculturativi intenzionali, governando con rispetto, empatia e spirito critico le dinamiche di cambiamento delle diverse specificità, che reciprocamente coinvolgono i gruppi etnici minoritari e le società che li accolgono.
L’educazione interculturale invita a considerare le culture come delle narrazioni condivise, contestate e negoziate (17), una visione che, evidenziando la dimensione della negoziazione, privilegia gli aspetti di fluidità e dinamicità delle culture, e ne sottolinea la natura socialmente costruita. In questa prospettiva, non si pensa ai processi formativi come luoghi in cui le culture, come entità già coerentemente definite, vengono messe in discussione e “trasformate” “post hoc” dal contatto e dal confronto, ma piuttosto, contemporaneamente considerate processo e prodotto dello scambio. La stessa educazione alla cittadinanza ha l’obbligo di coniugarsi al plurale, arricchendo la costruzione dell’identità nazionale delle innumerevoli relazioni tra diverse identità e alterità, dei patrimoni (cognitivi, affettivi, valoriali, religiosi, esistenziali) di ogni Persona, facendo sì che le differenti sensibilità che animano le società dalle molte culture interagiscano in un rapporto di scambio reciproco finalizzato non semplicemente alla salvaguardia delle rispettive identità, ma aperto al cambiamento, a vivere dinamicamente possibili varianti della propria identità etnico-culturale.
L’educazione interculturale mira, pertanto, ad affermare un diritto alla conoscenza che non è più riferibile alla trasmissione della cultura dominante in una data società o a livello planetario. Essa riconosce agli immigrati, così come alle minoranze interne autoctone e ai popoli delle aree più deboli del pianeta, il diritto di conservare la propria cultura e identità culturale. É quanto prevedono anche le Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, che assegnano alla scuola il compito di far sì che ogni persona sviluppi un’identità consapevole e aperta, valorizzando l’unicità e la singolarità dell’identità culturale di ogni studente. I valori comuni della democrazia, del primato del diritto, del diritto di ogni persona come “bene comune” dell’umanità sono le pietre angolari di una formazione pluralista.
I luoghi educativi devono pensare all’incontro con la diversità come confronto tra mondi eterogenei, autonomi e paritari, come ad un percorso animato da una tensione verso una nuova definizione delle identità, verso nuove socialità fondate sul reciproco riconoscimento, verso nuove culture che valorizzino la molteplicità del mondo e delle sue rappresentazioni. Basata sulla consapevolezza che i valori che danno senso alla vita sono disseminati in tutte le culture e che il dialogo è una ineludibile necessità in un mondo sempre più diversificato e insicuro, l’educazione all’interculturalità è impegnata a costruire la disponibilità a conoscere e a farsi conoscere nel ri-spetto dell’identità di ciascuno, a superare i confini.
Perché è questa la sfida che la contemporaneità pone: ri-unificare culture e storie della specie umana attorno a condivisi tratti di un nuovo umanesimo planetario, che abbia nel soggetto-persona il suo nucleo fondativo. E della persona, e dei suoi singolari, inviolabili bisogni e sogni, non può non essere custode della dignità e lievito dello sviluppo.


Note

1 [riferita all'intero saggio]Il presente contributo rielabora alcune riflessioni dell’autore pubblicate nel volume N. Lupoli (a cura di), Patrimoni identitari e dialogo interculturale, Franco Angeli, Milano 2010.
2 Professore Associato presso la Facoltà di Scienze della Formazione della LUB
3 “Abitualmente si parla di dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (...) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimane-re nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale”. Sayad A., La doppia pena del migrante. Riflessioni sul “pensiero di stato”, in “aut aut”, n. 275, 1966, p. 10.
4 Derrida definisce questo paradosso “ostipitalità”, coniugando i termini “ostilità” e “ospitalità”. Derrida J., Sull’ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, Baldini & Castoldi, Milano 2004.
5 Augé M. (1994), Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
6 Kluckohn C., Lo specchio dell’uomo, Garzanti, Milano 1979.
7 Appadurai A., Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001.
8 Anolli L., La mente multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2006.
9 Frabboni F., Pinto Minerva F., Introduzione alla pedagogia generale, Laterza, Roma-Bari 2004.
10 Frabboni F., Sognando una scuola normale, Sellerio, Palermo 2009.
11 Pinto Minerva F., L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2007.
12 Cfr. Frabboni F., Emergenza educazione. La scuola in una società globalizzata, UTET Università, Torino 2003.
13 Demetrio D., Favaro G., Immigrazione e pedagogia interculturale, La Nuova Italia, Firenze 1992.
14 Questo approccio ha prodotto l’insorgenza di un acceso conflitto dei giovani stranieri con i genitori, sottoposti a disistima e percepiti come persone perdenti in un contesto culturale che richiede diverse competenze cognitive e modalità di relazione e conflitti etnici conseguenti alla consapevolezza che l’assimilazione culturale non modifica la condizione di marginalità sociale, di subordinazione economica, psicologica e giuridica degli stranieri. Il giovane immigrato, a fronte di una società formalmente aperta, ma in realtà socialmente e culturalmente impermeabile, tende a ghettizzarsi, a riallacciare il senso della sua vita a modelli ancestrali, mai in realtà vissuti e, non di rado ricostruiti in una distorta “pu-rezza” tradizionale. Le rivolte violente nei ghetti etnici urbani e il sorgere di inediti fondamentalismi religiosi dai tratti “europei” tra gli immigrati ne sono la drammatica conferma.
15 Mantovani G., Intercultura. E’ possibile evitare le guerre interculturali? Il Mulino, Bologna 2004°; Si veda, a tale riguardo anche: Taylor C., Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993.
16 Panikkar R., Pace e intercultura, Jaka Book, Milano 2002.
17 Benhabib S., La rivendicazione dell’identità culturale, cit., pp. 23- 24.